Download Francesca Picchi, Yurte

Con il lavoro della serie Yurte e I Maggi, Anziché compie una sperimentazione che, diversamente dall’esperienza legata all’azione performativa, ruota intorno a oggetti con una propria autonomia di forma malgrado la predisposizione ad agire da dispositivi di interazione spaziale con il pubblico. Sono oggetti capaci di attivare l’azione, di concentrare l’energia in campo e veicolarla nell’opera. Rispetto alla performance intesa quale processo scultoreo metto in atto, questo lavoro è centrato maggiormente sull’oggetto.
Dal momento che la ricerca tocca da vicino il tema della forma e dello spazio, (o meglio la forma nello spazio), Anziché apre un confronto diretto con i modelli vegetali e le forme della natura usando i mezzi e le tecniche che ha a disposizione e che le sono più propri: il tessuto e il cucito. E con questi costruisce le sue forme nello spazio.
La costruzione dunque ha origine vegetale (yuta, ramoscelli di salice e tronchi raccolti sulla spiaggia) e si avvale della tessitura come tecnica di produzione. È una ricerca sui principi fondanti, sulle origini delle forme elementari che trova curiose risonanze nella teoria dell’architetto tedesco Gottfried Semper il quale, sul finire dell’Ottocento, elaborò una raffinata ricerca sulle origini tessili dell’architettura che lo portò a sostenere che: “gli inizi dell’uso di costruire coincidono con l’avvio della tessitura”.
“È certo che l’impiego di tessuti grezzi come mezzo per separare la casa, home, ovvero la vita all’interno da quella esterna e come organizzazione formale dell’idea di spazio,” dichiarò in una delle sue opere più conosciute Lo stile, “precedette senz’altro la parete costruita in pietra e in altro materiale”. La tesi trovò sostegno nel vocabolario della sua lingua madre, Semper ricordò, infatti, che “in tutte le lingue germaniche la parola parete (WAND), che ha la medesima radice e lo stesso significato sostanziale di veste (Gewand), ricorda l’antica origine e la tipologia della chiusura visibile dello spazio”.

Dal punto di vista strettamente materiale le Yurte, omaggio a un’idea di nomadismo, sono prodotte dall’intreccio di nastri di yuta che Anziché ricava tagliando sacchi per il caffè usati e dismessi: oggetti ‘ri-trovati’che Anziché immette in un nuovo ciclo vitale, attenta a conservarne la storia, affascinata dalle tracce della loro vita precedente e dalle immagini che il materiale stesso veicola/porta con sé.
La yuta è una fibra tessile; è ruvida, possiede un odore pungente (che forse attiene al fatto che la pianta appartiene alla stessa famiglia della canapa indiana), oltre ad essere resistentissima. Si ottiene dalla lavorazione di una pianta che cresce sulle rive del Gange (l’85% della produzione mondiale si concentra proprio lungo il delta del fiume indiano) e poi, una volta filata, intrecciata e cucita viene utilizzata per creare i sacchi per il trasporto del caffè dal Brasile all’Europa. La yuta dunque viaggia tra Asia, Sud America ed Europa attraversando i continenti.
La storia di questo materiale, il suo peregrinare di merce attraverso luoghi lontani assume il valore di statement politico ed ecologico. Il sistema produttivo, il riuso, l’attenzione per le risorse naturali, il riconoscimento di una bellezza intrinseca degli oggetti, dei materiali con cui sono costruiti e del loro vissuto muto, (proprio quelli meno nobili trascurati dalla tradizione della scultura che ha sempre favorito materiali eterni e forme immutabili) sono elementi di riflessione sul valore delle risorse naturali, il loro uso e consumo.

Se le Yurte è previsto che si indossino per rivestire il corpo, I Maggi sono immaginati come strutture di sostegno, supporti, stampelle, colonne, puntelli, elementi centrali della presenza nello spazio delle Yurte che in qualità di opere tessili sono costruzioni leggere e temporanee, prive di una struttura autoportante rigida. Le Yurte sono infatti forme aperte che hanno bisogno di instaurare delle relazioni, siano esse con un corpo, con un ramo, un bastone, un appiglio, o una struttura e di adattarsi insomma alle condizioni dell’ambiente in cui ’abitano’. Dal punto di vista strettamente dell’oggetto, le Yurte sono costumi di yuta senza fronte, né retro, che non hanno un rapporto antropomorfo col corpo, nel senso che non sono modellati su di esso pur completandosi con i suoi gesti e con il movimento, se indossate. Hanno piuttosto una funzione di relazione con lo spazio, o piuttosto di mediazione tra il corpo e lo spazio stesso. In questo senso sono vicine ad un’idea di architettura.

È il tema vegetale presente con il suo potere di metamorfosi (così radicato nella tradizione del nostro immaginario popolato di esseri ‘vegetali’, uomini-albero e di piante o arbusti dai sentimenti umani) a favorire il delinearsi di un’ambiguità tra corpo e albero, tra abito e architettura. Infatti Anziché parla delle Yurte come di “tetti da indossare”. Sono costumi e nello stesso tempo micro-architetture. Dimore a scala dell’abito che prendono vita dalla presenza dell’altro. Sono rivestimenti che proteggono e nello stesso tempo delimitano uno spazio sospeso, un dentro e un fuori. In alcune strutture di supporto il tema dell’albero è esplicito. Il legno emerge in tutta la sua forza di materia cercato, scelto, raccolto e lasciato com’è nello stato in cui è stato lavorato dal mare, dalla salsedine, dal vento e dal sole è perché questo ‘trattamento’ naturale ha prodotto una specie di rivestimento, una pellicola perlacea che allude alle morbidezze, alla sensualità delle membra umane, che partecipa quindi anche in questo caso all’ambiguità tra corpo e albero.

Ne I Maggi il legno, rivestito di yuta, tende a perdere la sua consistenza di materia: se ne confonde l’immagine e le sue qualità tattili, quasi che il rivestimento (nel celare l’aspetto materiale) ne intensificasse il potere d’azione, la sua carica energetica, proprio come accade al corpo una volta rivestito dalle Yurte.
I Maggi alludono ai culti arborei sopravvissuti nel mondo arcaico e in quello rurale delle campagne o dei boschi, in cui l’albero del maggio si identifica con lo spirito della vegetazione. Il lavoro si riallaccia dunque alle usanze di raccogliere dei ramoscelli, conficcarli nella terra e adornarli di nastri colorati, fiori, stoffe ricamate durante il mese di maggio (mese delle celebrazioni dello “spirito fecondatore della vegetazione, risvegliatosi con la primavera”) per ricordare il rapporto magico con la terra e onorare le forze occulte del rinnovamento. Come sostiene James George Frazer nelle feste dell’albero, ancora vive nelle tradizioni popolari europee, sarebbe implicita “l’idea di rigenerazione della collettività umana mediante una sua partecipazione attiva alla resurrezione della vegetazione e della rigenerazione del Cosmo”.
F.P.
29.09.2012