Tapis-à-porter
27.01 - 07.02.09
Careof, Milano a cura di Francesca Pasini

C’è sempre un coinvolgimento tra chi guarda e le cose osservate, e molto spesso non è facile riconoscere il punto che determina la dimensione prospettica di un’azione. Paola Anzichè lavora su questo crinale mettendo in scena delle performance dove danzatrici o ginnaste costruiscono diverse prospettive, lo fanno sollevando e sostenendo col proprio corpo vari elementi: delle mele, dei libri, dei frammenti di una sedia scomposta.
Paola interviene entrando in scena e disponendo questi elementi sul corpo delle danzatrici che con movimenti ritmici li fanno cadere azzerando la scena, che poi nuovamente si ricompone con altri movimenti e altre figure. La presenza di Paola in questi teatri mobili e momentanei segnala la distanza prospettica tra chi guarda e chi agisce, tra le cose nel loro momento di inerzia e quello in cui raggiungono l’equilibrio necessario perchè l’immagine si formi e si dissolva. Mentre si assiste alle performance automaticamente entriamo in scena e, proprio come a teatro, sono molteplici i punti di vista da coordinare e così si ha la percezione di partecipare al disegno progettuale che sta prima della configurazione visiva, appare la mobilità della visione e il perenne coinvolgimento tra chi guarda e le cose che si manifestano.
Questa empatia è resa particolarmente esplicita dalla presenza stessa dell’artista che, pur misurata e sfuggente, sottolinea il movimento verso e dentro la scena che ognuno compie.
Nelle registrazioni video, che Paola compie anche per studiare i movimenti e inquadrarli in prospettive precise, avviene uno scarto: la distanza dalle cose si rende visibile e ognuno individua il coordinamento ritmico che guida questi “teatri viventi”. E’ un passaggio molto interessante che da un lato ci fa capire il movimento percettivo della realtà, dall’altro mette in scena la decisione necessaria perchè un’immagine acquisti quella specifica figura e non un’altra. L’etimologia della parola decisione deriva dal latino, de-caedere, che significa appunto “tagliare,”, e nelle sue performance c’è sempre un momento in cui le cose si rompono, cadono, tagliano la composizione. Inoltre in queste documentazioni video appare il “canovaccio testuale” che sta a monte della performance, che a sua volta fa di questa documentazione un autonomo testo visivo e prospettico e non solo un sistema per ricordare ciò che è avvenuto.
Nella performance Tapis-à-porter l’oggetto preso a testo ha valenze che coinvolgono una particolare idea architettonica. Il tappeto è di per sè metafora di un testo dove trama e ordito creano un intreccio (textum), che nella sua variante tectum acquista il significato di tetto. La costruzione testuale e quella architettonica trovano dunque una parentela che è metafora dell’abitare umano, costituito di parole, pensieri, case, suolo e cielo. Il tappeto ne è da un lato un ornamento, dall’altro una protezione, esattamente come lo sono le parole che si intrecciano in un testo, i fili che compongono trama e ordito, le travi e le tegole che servono per costruire il tetto.
Dalla performance Tapis-à-porter emerge la visione di un’architettura organica rappresentata dal tappeto, cioè l’oggetto simbolo di una delle primarie produzioni umane: tessere. Il fatto che Paola predisponga un dispositivo per cui dei ginnasti lo usano, lo indossano, lo muovono evidenzia una necessità ancora poco indagata, ma molto necessaria, che è quella di iniziare a pensare all’architettura come a un gesto che interviene nell’affollamento di oggetti, edifici, macchine, mettendo in essere attività di de-costruzione, suggerendo pratiche che liberano il territorio, che tagliano l’eccesso di oggetti a favore di attività in grado di mettere a punto un diverso sistema di relazione tra i corpi e le prospettive in cui avvengono le azioni umane.
Non si tratta di ritornare a una mitica origine delle capanne, ma a una condizione dove invece di aggiungere oggetti, si possa sostituire al tapis roulant della produzione incessante un’idea di tapis-à-porter in cui ognuno possa individuare la “prospettiva personale” e collettiva dove gli oggetti necessari alla vita entrano in rapporto con chi li utilizza e, per eccesso, si possano pensare come elementi indossabili e quindi inscindibili dal proprio corpo.
Non riguarda una semplice riduzione dei consumi, ma un concetto diverso di utilizzo delle risorse naturali e degli oggetti che hanno modificato radicalmente la vita quotidiana, anche se in modo molto dispari rispetto alla distribuzione degli abitanti del pianeta. Perchè questo succeda non bastano le buone intenzioni o i momenti di crisi effettiva come l’assenza di petrolio, servono invenzioni a tutto campo, anche nell’arte. Paola Anzichè ci propone la metafora di un tappeto che non ha proprietà magiche, ma che, nel ricordare l’atteggiamento nomadico che affonda nella storia delle civiltà, propone un pensiero (textum) e un’architettura (tectum) che tendono a tagliare gli oggetti destinati a diventare obsoleti e che affollano il suolo del mondo in modo insostenibile.
Gennaio 2009

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