Le Fibre di Baku – un ritratto della città

Baku come molte altre città del mondo, è presa in un moto vorticoso che di giorno in giorno ne muta la fisionomia: i grigi edifici sovietici sono rimessi a nuovo con piastrelle finto-antico e gli sventramenti cancellano i vecchi quartieri popolari per far spazio ai grattacieli.
La città si veste a nuovo e si traveste: se mai Baku ha avuto un genius loci, oggi sembra averlo smarrito. Paola Anziché non lo ha cercato e ha fatto bene, era un sentiero che non portava da nessuna parte.
Quello di Paola non è lavoro da archeologo, ma un’arte che si gioca tutta nella contemporaneità: ritrarre Baku non è questione di genius ma di timbro, non si tratta di risalire alle fonti, ma di tracciarne il profilo, di mostrare quel che la rende viva, ovunque stia andando.
Nell’era delle fibre ottiche, Paola lavora con le fibre tessili. A muoverla non è il gusto dell’antico, del preindustriale e dell’artigiano, ma la presa d’atto di una condizione antropologica fondamentale: l’abbigliamento, qualsiasi forma prenda e quali che siano i tempi, resta la casa che avvolge il corpo. Ecco allora profilarsi il corpo della città, la fibra degli edifici e delle persone che la abitano, quel che fa sì che Baku sia quella che è.
Lo spessore metaforico dell’intreccio che ritroviamo sia nelle parole del senso comune che in quelle delle scienze sociali, ci mostra come la vita di relazione sia fatta di pieni e di vuoti, come il tutto sia più della somma delle parti. Il tessuto è forte e fragile a un tempo, materia viva che resiste alle intemperie ma che anche si logora e consuma. Se non vogliamo che si laceri, del tessuto occorre prendersi cura: coesione, elasticità e resilienza siano una questione di texture.

Nel ritratto che Paola fa di Baku, il tessuto diventa architettura, scultura abitabile. Piegati e ripiegati, quasi fossero origami, i tessuti prendono volume e assumono forme imprevedibili: strutture alveolari, oblunghe, vagamente organiche, meteore che fluttuano senza mai toccare terra, come in una sorta di arcipelago o costellazione in formazione. Forme che si stagliano in splendida solitudine o che fanno massa, quasi a proteggersi, a fare gruppo. Appese, sospese, legate a un filo, sfidano la gravità e lasciano trapelare la propria precarietà.
Quelle di Paola non sono sculture figurative senza per questo essere astratte. Si tratta di opere che rimandano a contesti di vita, che si innervano nelle fibre della città, perché nascono da uno scrupoloso lavoro di ricerca e documentazione, dalle conversazioni per strada, dall’avere la città nella gambe. Nell’opera di Paola, l’intelligenza della mano si nutre di una sensibilità attenta e premurosa, di una capacità empatica fuori dal comune, che dà alle sue sculture la densità del vissuto. Quello delle persone che ha incontrato e quello di vite che possiamo solo immaginare, ma che il tessuto ha la forza di evocare.
Pattern e materiali delle opere di Paola sono perfettamente riconoscibili dal pubblico che a Baku ha visitato la mostra, perché sono quelli dei tessuti che Paola ha trovato nei mercati cittadini e delle lane che si è procurata dai pastori delle montagne.
E tuttavia nell’aspetto noto e rassicurante dei tessuti e delle fibre di cui ci si veste, s’introduce di soppiatto un elemento perturbante che rende il famigliare parzialmente estraneo: la lana che richiama le strutture pastorali della società azera, assume forme coniche che sembrano quelle di grattacieli, creando un ossimoro visuale in cui passato e futuro si sovrappongono senza mai coincidere. Linee morbide e colori non tracciano un ritratto armonico e pacificato di Baku ma sono attraversate da un filo di tensione: le fibre rimodellate dall’artista, presentate sotto una diversa luce, sembrano mutarsi a tratti in forme di vita aliena.
Paola non argomenta, non dice, ma allestisce un’esperienza: al visitatore azero ha offerto uno specchio in cui guardarsi e in cui forse ha potuto riconoscersi solo a metà; non solo perché quello di Paola è uno sguardo esterno ed estraneo, ma anche perché il suo è uno specchio deformante che restituisce fedelmente un’identità in cambiamento.
Ma ora che la costellazione di Baku plana a Milano, quale sarà l’esperienza che ne faranno i visitatori? E se poi Milano non fosse così diversa da Baku?
Ivan Bargna