ArteSera 2011

Per Paola Anziché era naturale e familiare fare un progetto per "Collezione ArteSera", perché il suo lavoro, il suo sguardo e la sua poetica vanno già di per sé nella direzione della relazione, dello scambio, della rete come spazio di accadimento dell'opera d'arte. Paola fa arte coinvolgendo luoghi e persone. In questo caso l'artista ha scelto un''immagine che parte come documentazione di una performance, ma poi diventa subito altro, e cioè disegno, pittura, scrittura. La sua rete verde si trasforma in un'icona di ciò che per lei è sia la collettività sia fare arte. Un modo simbolico di rapportarsi al lettore e metterlo a far parte del suo lavoro.

Nella grande fotografia qui di fianco, sei stata immortalata durante l’installazione di “Aggrovigliamenti” alla Fondazione Merz, per il ciclo Meteorite in giardino nell’estate del 2009. Per definire questa grande rete di elastici, come anche tante altre tue opere, tu usi l’espressione “scultura performativa”. Potresti spiegare in che cosa consiste questo lavoro, in particolare nella sua componente partecipativa?

Aggrovigliamenti è nato dal tentativo di ricostruire “Rete de elastico”, 1968 di Lygia Clark, la rete però è stata ingigantita ed è diventata una sorta di paesaggio verde elastico, una sorta di piattaforma ludica; il movimento di ciascuna persona influenzava quello degli altri, e insieme trasformavano la geometria della rete. Per realizzare questo progetto ho coinvolto numerose persone, studenti d’accademia, e la sera dell’opening alla Fondazione Merz, la performance consisteva nel montare le reti e chiedere al pubblico di partecipare attivamente nel montaggio, aggrovigliandolo piano piano nel lavoro, lasciandolo trasportarre, trascinare, risucchiare...

Nella documentazione video di questo lavoro i partecipanti sembrano entusiasti di essere coinvolti nell’installazione notturna della rete nel grande spazio della piscina vuota antistante l’edificio della Fondazione Merz. La situazione che hai creato era suggestiva, giocosa, e capace di coinvolgere tante persone in un azione collettiva coreografata e fortemente estetica... si può dire che quest’opera riflette l’importanza delle relazioni sociali nella qualità della nostra vita e del lavoro dell’artista? Immagino che coinvolgere queste persone ha richiesto molto tempo ed energia prima dell’installazione, e che magari tu abbia mantenuto contatti con alcuni dei partecipanti anche dopo la fine dell’evento...

Quello che mi affascina di più della scultura performativa cosi come l’ho sperimentata già in diverse occasioni (più recentemente lo scorso ottobre per la notte bianca a Skopje, o anche alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo in occasione della mostra Greater Torino 2010), è che seppur l’evento si “consuma” rapidamente in una serata, il lavoro che sta dietro è inimmaginabile... il tipo di energia che si viene a creare per curare i rapporti con le persone e i partecipanti è tale da permettermi di fare tutto da sola visto che non ho ancora un team di aiutanti... allo stesso tempo le persone che partecipano alla performance e che mi aiutano a realizzare l’evento sono tutte persone motivate e accettano perchè diventano curiose. Allora la partecipazione diventa uno scambio di energie e adrenalina che da sola non potrei mai arrivare ad avere...
Nel mio lavoro c’è spesso un’alternanza tra periodi di solitudine (in cui sono intenta a preparare i pezzi) e la ricerca di una attuazione, un momento di realizzazione compartecipata dove avviene un rilascio di energia che diventa una scoperta anche per me! Tutte le persone che hanno collaborato ai miei progetti sono rimaste in contatto con me; nel tempo nascono anche diversi tipi di scambi e si creano rapporti…

Puoi parlarmi invece delle tue opere che coinvolgono danzatori e performers? Come nascono queste collaborazioni? Qual’è il rapporto tra il loro lavoro e gli oggetti che realizzi?

Tutto nasce a partire dalle mie sculture, o oggetti, che vengono a loro volta animati. Esistono diverse tipologie di lavori: qualche anno fa, rivedendo esempi di pittura di nature morte allo Staedel Museum di Francoforte, mi sono lasciata suggestionare da queste composizioni allo stesso tempo inanimate ma con qualcosa di vivo al loro interno. Provandone una serie di traduzioni con un corpo di danzatrice e in seguito con una acrobata, si è sviluppato un lavoro fotografico che toccava anche l’idea di oggetto temporaneo. “The functional fake object” (2004/06) mette in scena il rapporto di apparente funzionalità fra oggetti appoggiati su parti di un corpo umano, reinventati attraverso le capacità di un’acrobata, ma allo stesso tempo estremamente temporanei, poichè le azioni e le posizioni non possono durare molto più di una semplice seduta fotografica. Trasformando le immagini fotografiche in azioni performative, abbiamo provato a vedere quasi una concatenazione di immagini che da potenziali diventavano azione.
Tapis à porter (2008/09) era nato rivisitando l’idea di architetture leggere e nomadiche - quali tende e le yurte - realizzando tre vasti tappeti che, animati da performer, diventano architetture temporanee con una presenza scultorea, le azioni di questa performance seguivano dei gesti e delle coreografie che diventavano “metafora concreta dell’idea di territorio, nonché simbolo del viaggio, della transizione e del nomadismo”, qualcosa che si veste, che si usa come protezione e come costruzione leggera e temporanea. Allo stesso tempo però, mi interessava sempre più l’energia che si determina nell’azione collettiva – nel processo del suo farsi – più che non nel semplice risultato estetico fine a sè stesso. L’opera richiede una partecipazione corporea; oltre che rivestire il corpo, chiede che si muova, che danzi. È il corpo delle danzatrici, dunque, nel ‘portare’ l’opera, indossarla, entrare in essa, percorrerla, danzare e camminarci dentro, ad attivare la potenzialità espressiva della sua struttura che rifiuta una forma definitiva, fissata per sempre, in uno stato inamovibile appunto, che non ammette cambiamenti.

E' curioso che il tuo lavoro, cosi' "contemporaneo e multiforme", nasca in parte da un riferimento alla tradizione antica della pittura di genere. In effetti questo riferimento alla natura morta e' piu' chiaro in un'altro tuo lavoro, "Shopping T", nel quale i mediatori di un museo indossano t-shirt con grandi tasche piene di frutta fresca, che distribuiscono e regalano al pubblico. Trovo davvero molto interessante questo riferimento "nascosto" alla pittura, anche rispetto all'uso di varie forme di tessuti, maglie e trame che caratterizza spesso il tuo lavoro e che forse potrebbe evocare il medium tradizionale della tela. In ogni caso, credo che un riferimento piu' immediato e familiare possa essere per esempio il lavoro di artisti come Franz Erhard Walter o James Lee Byars che negli anni '70 hanno sperimentato forme analoghe di partecipazione, spesso facendo ricorso a superfici tessili e capaci di diventare indumenti o comunque di forma tale da essere "agiti" collettivamente nello spazio del museo, per favore un'arte veramente "viva"... Ti senti vicina in qualche modo alle loro ricerche?

Più ancora che Franz Erhard Walter o James Lee Byars, in generale è nell'attitudine di molti degli artisti di quegli anni che io ritrovo la libertà e la ricchezza di ricerca ed espressione, non legata a mezzi e stili specifici: quello che mi interessa è essere predisposta a una sorpresa che il lavoro stesso puo’ suscitare…

Progetti futuri?

Ho diversi progetti in mente, a fine Gennaio comincio a girare un cortometraggio, tratto dalle testimonianze degli ex studenti di Lygia Clark , sulle sue lezioni alla Sorbona di parigi tra il 1969/1975....

Alessandra Sandrolini vive e lavora come curatrice e critica d'arte tra Parigi e l'Italia. Ha lavorato presso istituzioni come Villa Medici a Roma e il Centro Pompidou a Parigi e, come curatrice indipendente, ha realizzato mostre ed eventi d'arte contemporanea per istituzioni internazionali quali il Palais de Tokyo a Parigi, il Castello di Versailles, il Museo del Grand Hornu a Mons in Belgio e la Biennale di Gwangju in Corea del Sud.